Di Luca Rolandi
Nel settembre 2016 i rappresentanti dei 193 Stati membri dell’Onu al Vertice delle Nazioni Unite su migranti e rifugiati, organizzato nell’ambito dei lavori dell’Assemblea generale, presero una decisione importante, votarono la storica “Dichiarazione di New York” per i rifugiati e i migranti. Nonostante le critiche da parte di Organizzazioni non governative (Ong) internazionali, che sottolinearono la debolezza della Dichiarazione in quanto non vincolante per i Paesi che l’hanno sottoscritta, ancora oggi non dobbiamo sottovalutare la portata dell’atto e la sua importanza come quadro di riferimento. Certo da allora è molto cambiato e per molti aspetti in peggio.
Ricordare Patrizia e il suo impegno nei confronti delle donne e degli uomini, profughi, immigrati e rifugiati che cercano di lasciare casa, famiglia e affetti per sopravvivere mi pare possa essere importante. Cercare di riflettere mettendo insieme qualche pensiero per una emergenza epocale, che si tende a dimenticare o fare finta che non esista, credo possa essere una buona cosa.
Tutti sappiamo o dovremmo sapere che i rifugiati sono persone che sono costrette a lasciare il Paese dove sono nate e vivevano per scappare dalla morte, dalla violenza, dalla persecuzione, dalla discriminazione solo perché professano una determinata religione piuttosto che un’altra, appartengono ad un gruppo etnico piuttosto che ad un altro, hanno un’idea politica diversa da quella delle persone che governano il paese.
Non dobbiamo stupirci che i nuovi migranti, rifugiati o meno, trovino da un lato accoglienza e dall’altro paure e anche talvolta aperta ostilità. A ciò si aggiunge una circostanza tutt’altro che trascurabile e cioè che da 40 anni le economie europee crescono a ritmi molto contenuti, non hanno un vero bisogno di nuova forza lavoro, anzi hanno grosse difficoltà ad assorbire la disoccupazione, specie nell’Europa mediterranea. All’inizio, i nuovi migranti hanno bisogno di tutto: alloggi per dormire, vestiti per coprirsi, cibo per alimentarsi. Se gli arrivi sono di massa si crea una situazione di emergenza, più o meno drammatica a seconda dell’efficienza delle istituzioni pubbliche e della mobilitazione della società civile.
Ma migranti, rifugiati e profughi che arrivano in Italia per mille motivi, dopo le difficoltà della traversata del Mediterraneo e il soggiorno in centri di accoglienza, iniziano un difficilissimo processo di integrazione: bisogno di un alloggio e anche di un lavoro. Se poi se c’è anche la famiglia, hanno bisogno di scuole e di servizi sanitari, di assistenza. Certo, non mancano esperienze positive di accoglienza e integrazione, così come un patrimonio di principi di riferimento riconosciuti a livello internazionale, a partire dal corpus dei diritti umani. È altrettanto chiaro che è in gioco la vita di molte persone e intere comunità. Ma questo non può farci misconoscere la potente carica conflittuale che si scatena a ogni livello, ben al di là dei fatti di cronaca che si ripetono con frequenza crescente.
Il conflitto intorno alle migrazioni attraversa la politica nazionale di tutti i Paesi, così come i rapporti tra Stati, anche all’interno di un’area relativamente coesa come l’Unione Europea. Persino tra coloro che condividono l’impegno per i diritti degli immigrati non mancano le contrapposizioni sul modo migliore di portare avanti le proprie posizioni. In un Paese ansioso per il dopo-Covid, molti vorrebbero contrapporre gli italiani poveri ai richiedenti asilo in cerca di accoglienza, come se ciò che viene dato agli uni venisse tolto agli altri, in un gioco a somma zero. Cercare dunque, e qualche speranza arriva dall’ultimo Consiglio Europeo, di stoppare l’idea della retorica dell’Europa matrigna, cercando di affrontare insieme, nonostante tutte le questioni aperte per dare qualche risposta concreta e non accontentarsi di fotogrammi spesso tragici sugli ultimi sbarchi.