Di Patrizia Pastore
Alla conclusione di un congresso ci sono molti saluti e ringraziamenti da dover fare; c’è però un saluto e un ringraziamento particolare che mi sento di dover fare - e sicuramente voi vi unirete a me - ed è rivolto a Don Agostino. Mi piace immaginare un messaggio firmato da tutti i fucini, come segno del nostro affetto e della nostra riconoscenza. Alla fine di questa giornata, ultima di tante giornate congressuali, credo possa risultare poco efficace cimentarsi in un tentativo di sintesi di ciò che è avvenuto. Sicuramente le relazioni, gli interventi, le parole che abbiamo ascoltato sono state illuminanti, occasione di stimoli e di provocazioni. Credo che proprio per questo dobbiamo dare alle parole ascoltate e alle speranze di cui abbiamo parlato il giusto spazio e il tempo necessario per poter essere ora custodite nei nostri cuori e nei nostri pensieri e poi - in un secondo momento, quando faremo rientro - più profondamente meditate e forse meglio comprese. Vorrei invece ripercorrere brevemente il cammino che ci ha portato a questo congresso e il significato che noi abbiamo voluto dare ad esso.
È un cammino che è iniziato nel ‘90 con la volontà di scavare più in profondità nell’identità di questa Federazione e di offrire ancora una volta la proposta fucina, convinti, pur nella semplicità, del contributo che questa associazione ha dato e che può e vuole ancora dare. E questo congresso, che ha visto svilupparsi un percorso abbastanza nuovo nella formulazione e stesura del documento congressuale, nella sua strutturazione, nell’articolazione delle iniziative parallele, è sempre stato pensato come l’occasione per fare ritrovare tutta la federazione coinvolta insieme in un confronto dal quale potessero emergere provocazioni per le linee programmatiche di un nuovo decennio.
Dunque, una Fuci che si pone in continuità con la sua storia anche se è impegnata in un nuovo decennio. A questo riguardo, penso di dover sottolineare con forza che la Fuci non si sta rifondando come qualcuno teme o come qualcun altro spera. Piuttosto, noi continuiamo a coltivare quell’attenzione e quella tensione verso la storia che ci sono sempre state care: alla luce dei cambiamenti che accadono intorno a noi e delle svolte epocali che caratterizzano questo scenario storico, ci pare di intravedere gli spazi per una nuova cittadinanza, intesa innanzitutto come cittadinanza universitaria ma anche in un’accezione completa e globale.
Spazi dentro i quali pensiamo che l’esperienza fucina possa trovare un suo ruolo positivo e originale. Pensare ad un congresso straordinario, dunque, ha significato “semplicemente” è ancora una volta lasciarsi interrogare dalla storia e da quella Parola che è l’interlocutrice fondamentale della storia stessa.
Non solo: in questa occasione abbiamo voluto lasciarci interrogare innanzitutto dalla nostra storia. Per questo il ricordo di Paolo VI, la mostra di Ricerca, le interviste sul numero speciale di Ricerca, fino agli interventi dei gruppi ascoltati in questi giorni.
Rivisitare questa storia guardando ad un passato che, lungi dal ridursi a eredità pesante, può e deve essere reinvestito nel nostro presente. Ed è per questo che mi sembra di poter leggere nel segno della continuità il ricordo di Giovan Battista Montini e gli interventi dei gruppi durante le giornate congressuali. In particolare, senza volermi dilungare nei vari momenti che abbiamo vissuto, mi pare di poter dire che la partecipazione dei gruppi abbia rappresentato forse uno degli elementi più significativi, più positivi di questo congresso. Il contributo esplicito dei gruppi non è stato solo un modo per rendere tangibile il loro maggiore coinvolgimento né si è trattato di una forma di gratificazione. Il contributo di riflessione dei gruppi ha significato far parlare la Fuci in modo più ampio e articolato, ha significato sottolineare come la nostra federazione possa essere davvero configurata - riprendendo le parole che Scaglia riferiva al pensiero di Montini - come un binario sul quale scorre non un treno ma tante locomotive che cercano di essere tutta trainanti, ognuna a suo modo. La presenza dei gruppi, quindi è stata la testimonianza di questa ricchezza, della maturità dei gruppi che danno vita alla Fuci. E mi sembra anche di poter dire che le oggettive differenze, i particolari cammino e anche le diverse declinazioni del loro impegno non abbiano però impedito di farci sentire comunque in sintonia, di fare comunque riconoscere ognuno nello spirito del lavoro degli altri e quindi di farci ascoltare - con una metafora musicale - tante note diverse scritte tuttavia su un unico pentagramma e che hanno così dato vita a un’unica armonia. Penso, ma lo pensiamo tutti, che la forza è forse la scommessa di questa Federazione sia in questo momento proprio nella capacità dei gruppi e quindi di noi tutti di saper leggere attraverso le categorie dell’ordinario e della responsabilità anche l’impegno di essere fucini. Una responsabilità vissuta non moralisticamente - come qualcuno ha giustamente ricordato durante i lavori - ma con entusiasmo, amando questa esperienza perché è un’esperienza che ci permetterà di crescere anche al di là e al di fuori di essa. Alla Fuci per gli universitari degli anni ‘90 - come recita lo slogan che fa un po’ da filo conduttore a questo congresso e a questo decennio di lavoro - a noi stessi, quindi, chiediamo uno sforzo, quello di un impegno creativo che sappia tradursi operativamente negli ambiti del nostro agire, radicandosi sempre di più nel tessuto sociale, ecclesiale, civile ed anche internazionale; mettendo in gioco, dunque, non solo un patrimonio di idee e uno stile ma un soggetto storico cioè un’esperienza collettiva in cui non esistono trascinatori gregari ma in cui vive la corresponsabilità. Una Fuci per gli universitari degli anni 90 caratterizzata da una presenza che definirei - forse in modo troppo sintetico ma spero efficace - umilmente coraggiosa. Un’umiltà che nasce dalla coscienza del limite di essere uomini e un coraggio che si radica nella consapevolezza che in quell’uomo può abitare Dio. In questa possibilità consiste la domanda fra le domande: essa è quella ricerca che si compie verso la risposta che quel nome che sappiamo di dover dare alle speranze. Mi piace affidare alla difficoltà di questa ricerca la sollecitazione di un brano di Martin Buber che mi pare in sintonia con la nostra riflessione sulla vocazione alla fede ordinaria: “Un giorno in cui riceveva degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo: ‘Dove abita Dio?’. Quelli risero di lui: ‘Ma che vi prende? Il mondo non è forse pieno della sua gloria?’. Ma il Rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda: ‘Dio abita dove lo si lascia entrare’. Ecco ciò che conta in ultima analisi: lasciar entrare Dio. Ma lo si può lasciar entrare solo là dove ci si trova, e dove ci si trova realmente, dove si vive, e dove si vive una vita autentica. Se instauriamo un rapporto santo con il piccolo mondo che ci è affidato, se, nell’ambito della creazione con la quale viviamo, noi aiutiamo la santa essenza spirituale a giungere a compimento, allora prepariamo a Dio una dimora nel nostro luogo, allora lasciamo entrare Dio”.