Convegno di Napoli

La violenza non è un gioco. Il contributo dell’associazionismo nel contrasto alla violenza.



Il compito che mi è stato affidato è quello di provare a enucleare il contributo – che definirei subito “preziosissimo” – del mondo dell’associazionismo nel contrasto alla violenza di genere. Concedetemi due premesse, necessarie per comprendere il cuore del mio intervento: innanzitutto vi presenterei il biglietto da visita di Acisjf e poi farei un riferimento ai dati, al contesto dentro il quale muoviamo insieme questa riflessione.

    1. Quando si parla di mondo dell’associazionismo si fa riferimento ad un universo ampio, molte forme aggregative di contrasto alla violenza di genere sono sorte negli ultimi anni, sollecitate dai sempre più numerosi casi di femminicidio e violenza perpetrata ai danni delle donne. Acisjf ha alle spalle una storia ultracentenaria, che fa di questa realtà un punto di riferimento consolidato nel tempo e nella storia delle principali città italiane. L’associazione Cattolica Internazionale a Servizio della Giovane esprime la propria cifra proprio nella dizione: “Donne a servizio di altre donne”. Agli inizi del ‘900 è forte il bisogno di contrastare la “tratta delle bianche”; l’associazione si fa prossima alle ragazze costrette a viaggiare; accoglie le mondariso, costrette ad un lavoro sfiancante. I tempi evolvono come le forme di sostegno di Acisjf, impegnati su fronti disparati: il diritto delle donne al voto, l’eliminazione delle case chiuse, l’apertura di tutte le carriere alle donne, l’adozione. In breve, è possibile dire che Acisjf ha accompagnato l’emancipazione femminile, sostenendo le battaglie delle donne, curandone le fragilità. Con questa panoramica è possibile capire come un’associazione del genere sia in prima linea, oggi, per una nuova cultura non violenta di genere.
    Chi siamo? Lo dicono i numeri per noi: 15 case di accoglienza, 600 posti letto, 5 mila giovani seguiti dagli uffici di stazione, 20.000 pasti gratuiti, 15.000 ragazze e giovani donne in gravi difficoltà aiutate.

    2. Il contesto dentro cui ci muoviamo è bene noto, ma credo sia sempre opportuno riferirci ai dati, guardarli in tutta la loro crudeltà ed essere consapevoli del fenomeno dilagante che serpeggia nel nostro Paese.
    Quasi sette milioni di donne hanno subìto qualche forma di abuso nel corso della loro vita.
    Più dell’82% dei delitti commessi a scapito di una donna, in Italia, sono classificati come femminicidi.
    Nella maggioranza dei casi la vittima è italiana, solo nel 22% dei casi è straniera – credo sia importante questo aspetto per sfatare un’idea distorta dell’immaginario collettivo – con una larga maggioranza proveniente dall'Est Europa. Il 74,5% degli assassini hanno nazionalità italiana. Il 53,4% dei femminicidi si è registrato al Nord; il 75,9% si è consumato in ambito familiare. L’età media delle vittime è di 50,8 anni. L’arma da taglio è la più usata (1 volta su 3).
    Sono invece 652mila le vittime di stupro e nel 52,7% dei casi autori della violenza sono partner o ex. Anche i dati della tipologia di richiesta d’aiuto sono sconfortanti: il 40,2% di donne vittime di una qualche forma di violenza non si è fatta aiutare, perché pensava di poter gestire la situazione da sola.

E se questi numeri ci sembrano freddi e asettici, possiamo ricordare i volti che hanno contribuito a farli crescere esponenzialmente: Nadia aveva soltanto 21 anni quando è stata ammazzata un mese fa dal fidanzato, che ha vagato per tutta la notte con il suo corpo riverso nell’autovettura, a Dignano, in provincia di Udine. L’ennesimo femminicidio di un’estate che sembra essere intrisa del sangue di tante donne innocenti: tra il 13 e il 14 luglio, altre quattro donne sono state uccise dai loro compagni o da ex. Per arrivare ai recentissimi eventi di cronaca che riguardano Noemi, l’adolescente pugliese ammazzata dal suo fidanzatino.

Sono le donne come Nadia e Noemi che ci spingono come associazione a continuare il nostro lavoro di volontarie. Perché è a Nadia, a Noemi e alle altre donne vittime di violenza che non siamo state capaci di dare una risposta.

Le risposte che invece abbiamo saputo dare insieme a tante altre associazioni di volontariato, sono racchiuse in tre parole: accoglienza, mediazione, monitoraggio.

Credo siano questi i pilastri del contributo del mondo dell’associazionismo al contrasto della violenza di genere.

  • Tante violenze, soprusi e sopraffazioni si consumano in famiglia. Le vittime sentono spesso una distanza enorme dai familiari, che impedisce il dialogo e come attestano i dati anche il ricorso alle istituzioni non è né automatico né scontato. Un’associazione, un gruppo di volontarie rappresentano ambienti protetti per le vittime. Luoghi che riproducono il clima familiare, ma che sfuggono alle dinamiche malate delle proprie famiglie d’origine. Il contatto con una volontaria è un prezioso aggancio per uscire dal silenzio, affidarsi.
  • I volontari rappresentano però soltanto l’anello di congiunzione. Come presidente di un’associazione di volontariato mi preoccupa la chiusura di tanti centri antiviolenza per mancanza di fondi. Nei territori locali, è necessario creare reti e sinergie tra vari attori che possano rispondere con competenza e prontezza alle richieste d’aiuto delle donne: come volontarie possiamo fare tanto, ma solo in rete e in dialogo con i centri qualificati per tali tipi di intervento. Assistenza sociale, sanitaria, legale, psicologica, potenziamento dei centri antiviolenza, tutti temi caldi che spesso, non trovano risposte nella politica delle istituzioni a causa di burocrazia lenta e leggi farraginose.
    Ritengo che il nostro ruolo di sollecitare e istruire anche una buona legislazione a livello regionale, e quindi di vigilare sulla tutela dei diritti da parte di quella nazionale ed europea, debba servire soprattutto a questo: non fare delle questioni delle pari opportunità, della non violenza, delle azioni per i diritti di tutti, un campo riservato solo a chi, per tanti motivi, se ne occupa ogni giorno. L’associazionismo è un insostituibile mediatore tra vittime e attori qualificati per interventi specializzati, un pungolo costante e motivato per le istituzioni a non dimenticare gli impegni presi.
  • L’ultimo punto riguarda il monitoraggio. I protocolli, i follow up previsti dalle istituzioni spesso non sono incisivi. La presa in carico di un volontario ha un trasporto emotivo ed umano molto intenso. Chi entra nel cuore di un volontario è difficile che venga allontanato dalle sue cure e preoccupazioni. Credo sia importante per una vittima di violenza di genere sapere di avere un punto di riferimento, una porta sempre aperta, un volto amico a cui potersi affidare in quel lungo percorso di conquista della propria autonomia e sicurezza.

Concludo, sottoponendo alla vostra attenzione un problema che ci sta molto a cuore e su cui l’associazione tutta si sta interrogando: che fine fanno gli orfani della mattanza? Chi tutela i figli delle donne vittime di violenza da parte di padri e mariti? Dobbiamo vigilare affinché nessuno sia dimenticato.