Di Beatrice Covassi
A un anno dall’inizio di questa pandemia a volte ho l’impressione che poco o nulla sia cambiato.
Razionalmente so che non è vero. Abbiamo sviluppato in pochi mesi e iniziato a somministrare vari
vaccini efficaci contro il Covid-19, ci siamo attrezzati per lavorare, studiare, produrre a distanza.
L’Europa ha previsto stanziamenti senza precedenti, nell’ordine dei trilioni di euro, per la
ricotruzione post-pandemia.
Eppure, ho spesso la sensazione che vi sia una domanda più profonda in sospeso, una grande
questione elusa che ci impedisce di guardare avanti con serenità. Ripercorro allora la mia esperienza
personale cercando di provare a dare un nome a questa inquietudine irrisolta.
È passato quasi un anno dalla primavera del 2020 che ha visto i miei genitori morire in reparto Covid
a poche settimane di distanza l’uno dall’altra. Allora, anche dopo i fatti di Bergamo, vivevamo tutti in
modalità emergenziale. Ricordo le stazioni deserte presidiate dai militari, le ore al telefono coi
centralini impazziti degli ospedali per avere notizie, le richieste inutili di un ultimo contatto, una
voce, una presenza. Per mio padre, morto il sabato di Pasqua, neppure un saluto alla bara, neppure
un funerale. Non si poteva, non era previsto. Punto.
Questa assenza obbligata, il dolore di averli dovuti lasciar morire da soli resta vivo oggi per me come
per oltre 90.000 famiglie italiane che hanno vissuto lo stesso calvario. Un dolore che continua a
interrogarci e a interpellarci ogni volta che la stessa storia si ripete.
Credo infatti che su queste morti non abbiamo riflettuto abbastanza. Non abbiamo riflettuto fino in
fondo su cosa significhi la memoria, il passaggio del testimone, l’omaggio alle vittime di una
pandemia che ha colpito soprattutto la generazione del secondo dopoguerra. I nostri morti sono
presto diventati numeri su un bollettino, ci siamo come assuefatti a quei 200, 300 decessi al giorno
come fisiologici. Non ci siamo chiesti oltre chi fossero, quale vuoto ma anche quale pieno di storie e
di storia ci lascino in eredità.
La pandemia ci ha obbligati a vivere un tempo rallentato, sospeso, un calendario scandito da
aperture e chiusure, uno spazio relazionale a scarto ridotto. Eppure non sono sicura che abbiamo
compreso fino in fondo l’importanza di essere, esserci. In una società tutta tesa verso il fare, spesso
solo apparente, l’unica preoccupazione oggi sembra quella di tornare al più presto alla vita di prima,
la vita “normale”. Questo tempo invece ci impone drammaticamente di fare scelte fondanti: tra
essere e avere, tra cura e consumo, tra individualismo e comunità.
Domandiamoci se vogliamo anche noi invecchiare e morire in case di cura-penitenziario, esiliati dal
mondo e dagli affetti. Mettiamoci all’ascolto di bambini e adolescenti, grandi dimenticati in questa
pandemia: una “generazione Covid” portatrice di un grande disagio sociale se non troverà il modo di
essere protagonista di questo tempo anziché subirlo. Chiediamoci, ad ogni nuovo “lockdown”, il
prezzo sociale per donne e giovani in termini di disoccupazione, nuove discriminazioni, violenza
domestica.
Ecco allora la vera domanda che abbiamo eluso: quella su di noi, sulla vita che vogliamo, sulle cose
che contano davvero. Solo affrontandola potremo iniziare a costruire il tempo futuro su basi più
umane e durature.
Di Beatrice Covassi
A un anno dall’inizio di questa pandemia a volte ho l’impressione che poco o nulla sia cambiato. Razionalmente so che non è vero. Abbiamo sviluppato in pochi mesi e iniziato a somministrare vari vaccini efficaci contro il Covid-19, ci siamo attrezzati per lavorare, studiare, produrre a distanza. L’Europa ha previsto stanziamenti senza precedenti, nell’ordine dei trilioni di euro, per la ricotruzione post-pandemia.
Eppure, ho spesso la sensazione che vi sia una domanda più profonda in sospeso, una grande questione elusa che ci impedisce di guardare avanti con serenità. Ripercorro allora la mia esperienza personale cercando di provare a dare un nome a questa inquietudine irrisolta.
È passato quasi un anno dalla primavera del 2020 che ha visto i miei genitori morire in reparto Covid a poche settimane di distanza l’uno dall’altra. Allora, anche dopo i fatti di Bergamo, vivevamo tutti in modalità emergenziale. Ricordo le stazioni deserte presidiate dai militari, le ore al telefono coi centralini impazziti degli ospedali per avere notizie, le richieste inutili di un ultimo contatto, una voce, una presenza. Per mio padre, morto il sabato di Pasqua, neppure un saluto alla bara, neppure un funerale. Non si poteva, non era previsto. Punto.
Questa assenza obbligata, il dolore di averli dovuti lasciar morire da soli resta vivo oggi per me come per oltre 90.000 famiglie italiane che hanno vissuto lo stesso calvario. Un dolore che continua a interrogarci e a interpellarci ogni volta che la stessa storia si ripete.
Credo infatti che su queste morti non abbiamo riflettuto abbastanza. Non abbiamo riflettuto fino in fondo su cosa significhi la memoria, il passaggio del testimone, l’omaggio alle vittime di una pandemia che ha colpito soprattutto la generazione del secondo dopoguerra. I nostri morti sono presto diventati numeri su un bollettino, ci siamo come assuefatti a quei 200, 300 decessi al giorno come fisiologici. Non ci siamo chiesti oltre chi fossero, quale vuoto ma anche quale pieno di storie e di storia ci lascino in eredità.
La pandemia ci ha obbligati a vivere un tempo rallentato, sospeso, un calendario scandito da aperture e chiusure, uno spazio relazionale a scarto ridotto. Eppure non sono sicura che abbiamo compreso fino in fondo l’importanza di essere, esserci. In una società tutta tesa verso il fare, spesso solo apparente, l’unica preoccupazione oggi sembra quella di tornare al più presto alla vita di prima, la vita “normale”. Questo tempo invece ci impone drammaticamente di fare scelte fondanti: tra essere e avere, tra cura e consumo, tra individualismo e comunità.
Domandiamoci se vogliamo anche noi invecchiare e morire in case di cura-penitenziario, esiliati dal mondo e dagli affetti. Mettiamoci all’ascolto di bambini e adolescenti, grandi dimenticati in questa pandemia: una “generazione Covid” portatrice di un grande disagio sociale se non troverà il modo di essere protagonista di questo tempo anziché subirlo. Chiediamoci, ad ogni nuovo “lockdown”, il prezzo sociale per donne e giovani in termini di disoccupazione, nuove discriminazioni, violenza domestica.
Ecco allora la vera domanda che abbiamo eluso: quella su di noi, sulla vita che vogliamo, sulle cose che contano davvero. Solo affrontandola potremo iniziare a costruire il tempo futuro su basi più umane e durature.