Di Francesca Simeoni
« Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore ». In quest'attestazione insuperata di una Chiesa primaverile, quella di Gaudium et spes, mi pare di ritrovare il cuore più trasparente del carisma dell'amicizia.
Certo, ci sono stagioni e forme dell'amicizia. Già Aristotele ne intravvedeva tre, ponendo un discrimine, quanto ai fini della relazione amicale, tra l'utile, il piacevole e il bene. Vi è l'amicizia degli affini, quella in cui ci si sente a casa per non dette e indicibili immediatezze: ci si capisce senza spiegare, si condivide senza necessità di filtri. È l'amicizia del piacere scambiato e reciproco, del gusto di riconoscersi e ritrovarsi. C'è anche l'amicizia che intreccia interessi e crea vantaggi, che associa perché porta una comune utilità, esplicita o implicita. Tante e diverse comunità manifestano e offrono questi tipi di amicizia: dalle app per interessi comuni alle associazioni, dai gruppi Whatsapp fino al mondo dei social, che dell'amicizia ha fatto il suo specchietto, tanto ne abbiamo un bisogno profondo e viscerale.
Vi è poi l'amicizia di lunga data, che matura nel tempo e nel mutare degli interessi, che si accentua nella divaricazione prodotta dalla diversità, che si affina nel periodo dell'assenza, del silenzio, persino dell'incomprensione. È l'amicizia di cui la sapienza popolare e le tradizioni spirituali decantano la preziosità: « per un amico fedele, non c'è prezzo,/ non c'è peso per il suo valore » (Sir. 6,15). L'amico è il fedele: colui che rimane, che ci offre la sua verità perché noi stessi rimaniamo fedeli alla nostra. La parola dell'amico non ha prezzo e non si può pagare. È una parola benevolente e libera, che talvolta, quando capita di smarrirci, si fa parola di salvezza, intermediario angelico. Raro, unico è l'amica, l'amico che ci onora della sua esistenza: inestimabile l'esperienza di incontrarlo sulla terra. Esperienza dello spirito, richiede un certo pudore nel parlarne.
Vi è tuttavia un'altra esperienza, particolare, dell'amicizia. Ha una dimensione allo stesso tempo intima e universale, per questo si distingue dalle altre forme. È quella di cui parla, a mio avviso e indirettamente, Gaudium et Spes. È fatta di « gioie e speranze, di tristezze e di angosce » condivise. Nasce, però, dal saper fare comunione non tanto con chi è simile, conosciuto, ma piuttosto con chi non è immediato, con chi abita una lontananza, un fuori, con chi ci rimane sconosciuto. Come diceva Simone Weil, l'amicizia è un miracolo, un sacramento, soprattutto quando nasce tra due opposti, quando raggiunge due estremità, che non si sarebbero mai incontrate.
L'amicizia di cui parlo rende la terra abitabile. Perché è offerta prima di tutto allo straniero che ci sfugge, al vicino che non ci piace, al diverso con cui non c'è condivisione, all'amico che ci contraddice. È comunione con ciò che non ci è comune, è un'apertura sfrontata, un sorriso aperto in uno scambio neutro, un gesto di prossimità dentro alle nostre città frettolose, nelle nostre case da confinamento. E non è tanto la ricerca di un piacere o di un'utilità dalla relazione: non è piacevole, è redentiva. È capace di farci tendere a un bene più ampio del già noto: spezza il comfort e le attese, è un'avventura.
È un'amicizia difficile, che umanizza, perché costringe a sentire la gioia e l'angoscia di un cuore che ci è estraneo. Quest'amicizia, per dirla con Gaudium et spes, è fatta di umanità « che trova eco nel cuore ». Serve un cuore che rimbomba, sufficientemente largo e aperto da far risuonare echi. Serve un cuore ospitale, un'intimità universale: incarnata in gesti, in tono di voce, in scelte. Il carisma dell'amicizia nasce dal gusto per l'umanità, dal sentire ogni altro umano come un mistero che ci resiste e ci riguarda: un'esistenza piena di contraddizioni che non possiamo decifrare e, allo stesso tempo, un grumo di speranze e tristezze che ci parla dritti al cuore.
« To like or to love? », mi pare questa la sfida, per riprendere il filosofo coreano Byung Chul Han. L'amicizia percorre tutte le gradazioni, dal like/dislike fino alle profondità dell'agapē. È necessario, tuttavia, vigilare continuamente sul riscoprire l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza dell'amicizia, fino a sentire l'eco delle gioie e delle paure altrui nel nostro cuore, soprattutto di chi non ci riguarda o ci disattende. Se non curiamo l'estensione di questa gamma, rischiamo di far scolorire l'esperienza originaria della comunione umana, della comunità, ma anche dell'ekklēsia come chiamata a un'apertura fattivamente universale.
La perdita della comunione è un rischio sotto gli occhi di tutti, quotidiano. Scivoliamo molto facilmente in atteggiamenti di diffidenza, di sospetto che cova rabbia, di disagio che si trasforma in parole ostili. Lo sfibrarsi del tenore di fiducia smantella lo stare insieme: lo rende irrespirabile. L'amicizia invece crea spazi di respiro. Ricorda acutamente Han: « essere-liberi originariamente significa essere tra amici. [...] Ci si sente davvero liberi soltanto in [...] un felice essere-insieme all’altro ». Amicizia e libertà sono infatti sorelle etimologiche: nell’indogermanico, osservava É. Benvéniste nel suo Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, libertà (Freiheit) e amico (Freund) hanno la stessa radice. L'amicizia, quando accetta il disagio di allargarsi oltre la sfera del simile e dell'utile, diventa capacità di essere liberi insieme agli altri, diventa garanzia di coesistenza: io accetto e desidero che tu sia diverso, non temo la tua differenza perché siamo liberi-amici.
Patrizia andava a conoscere chi stava a due generazioni di distanza da lei per giovinezza, incontrava realtà associative diverse da quelle della sua provenienza e da quelle con cui aveva familiarità, aveva una parola amicale per le persone più diverse da lei, un sorriso e un riscontro sincero anche nei disaccordi vivaci con chi le era vicino. E questo, difficile non immaginarlo, era solo la sistole, rispetto alla diastole delle sue amicizie più intime, delle quali aveva cura come una sorella.
Il bello del carisma dell'amicizia, è che essa è davvero un sacramento, unisce il cielo e la terra e provoca ribaltamenti spirituali. Come diceva secoli fa Cicerone, non solo l'amicizia alimenta una buona speranza che « praelucet in posterum », che rischiara l'avvenire. Grazie all'esperienza dell'amicizia, « et egentes abundant et imbecilli valent », i poveri e i deboli, i difettosi e i dimenticati sono riscattati, trovando eco in un cuore ospitale; i nostri stessi limiti ricevono accoglienza e un'occasione per evolvere. E, « quod difficilius dictu est, mortui vivunt »: nell'amicizia rischiata e custodita fedelmente, avviene la rivoluzione pasquale.