Di Sergio Astori
Ripenso al giorno in cui ho incontrato Patrizia Pastore. Era il 9 aprile 1992. La Fuci (Federazione
Universitaria Cattolica Italiana), ad un solo anno dal Congresso straordinario di Brescia, dove si
intendeva preparare la sfida fucina al Duemila, si era di nuovo riunita in Congresso a Salerno.
“Distanza e prossimità. Verso l’altro tra differenze e nuovi soggetti” era il titolo dell’assise dove
erano convenuti giovani universitari da tutt’Italia. Nel Salone degli stemmi del Palazzo
arcivescovile, le parole introduttive al 51mo Congresso della Fuci furono scandite da Patrizia
Pastore e Sandro Campanini. Nei tre giorni e mezzo di riflessione ascoltammo voci autorevoli
parlare di Europa come società aperta, di cittadinanza diffusa e tutela dei diritti in Occidente, di
evangelizzazione e di ministeri nella comunità dei credenti, di nuovi mezzi per comunicare la
cultura, di interdipendenza imprevista tra gli stati e di nuovi nazionalismi, di tensioni pronte ad
esplodere intorno al Mar Mediterraneo.
Chi conosce i fucini non si stupirà, a chi non li conosce basti sapere che in quelle ore restammo in
ascolto di docenti e testimoni di valore assoluto: Virgilio Melchiorre della Cattolica e Paolo Segatti
della Statale di Milano, il cofondatore di Taizé Max Thurian, Tamar Pitch e Roberto Gatti
dell’Università di Perugia. E ancora, studiosi di filosofia del linguaggio, di filosofia del rinascimento,
di filosofia bantù in dialogo tra di loro. Infine, l’indimenticabile scrittore Pedrag Matvejevic in
tavola rotonda con esperti di economia del benessere.
Al principio dei lavori congressuali intervennero Patrizia Pastore e Sandro Campanini, presidenti
femminile e maschile della Fuci, una Federazione di gruppi ben radicata sul territorio nazionale e
in rete con analoghi movimenti di studenti cristiani nel mondo. Subito mi accorsi con ammirazione
che i due scandivano un vasto elenco di questioni cruciali, gli argomenti congressuali sfidanti che i
fucini chiamano “tesi”. Attorno ad essi, dopo averli studiati, le fucine e i fucini convocano un
congresso solitamente biennale per confrontarsi con le voci degli esperti. Negli appunti dell’epoca
trovo nota degli argomenti sfiorati da Patrizia e Sandro: l’accoglienza delle differenze tra nord e
sud del mondo, il processo di unificazione e i trasferimenti di sovranità in Europa, la riscoperta
della sinodalità nella Chiesa, l’indifferenza sociale serpeggiante, la crisi della rappresentanza
partitica, il ricambio degli apparati e i nuovi canali di partecipazione politica, l’innovazione nella
didattica e nella ricerca.
Col senno di poi, si potrebbe dire che era stata azzeccata punto per punto l’agenda delle urgenze
che giorno dopo giorno sarebbero diventate rilevanti nei trent’anni successivi. Merito di Patrizia e
Sandro, anche con la generosa amicizia di Mons. Mario Russotto che divenne l’Assistente
Spirituale Nazionale della Fuci, è stato quello di evitare un’elencazione delle sfide e dei problemi
fine a se stessa. Negli anni successivi alle giornate a Salerno, ho osservato che la prospettiva di
farsi prossimo agli altri è stata vissuta prima che predicata da Patrizia e Sandro, passando sempre
dalle parole ai fatti. Negli atenei in cui la Fuci era presente, provammo a dare corpo all’autonomia
universitaria sancita tre anni prima, nel 1989. Promuovemmo la qualificazione della didattica, la
valutazione della ricerca, la valorizzazione della partecipazione studentesca, la strutturazione dei
rapporti degli atenei con i territori. Erano gli anni Novanta, dirà qualcuno, ci si poteva permettere
grandi slanci. Io penso che insieme a Patrizia, Sandro e moltissimi altri abbiamo avuto modo di
declinare carità intellettuale e capacità profetica. In quale altro modo si spiegherebbero le
intuizioni di quasi trent’anni fa, che spingevano ad affermare che gli studenti fuorisede fossero da
considerare universitari a pieno titolo e che i cicli di laurea breve sarebbero stati un bene a patto
che non si fossero trasformati in surrogati di percorsi formativi alti?
Era il 9 aprile 1992. Quel giorno ho conosciuto Patrizia Pastore. Aveva cura di ciò di cui parlava
come se stesse appoggiando le idee sul cuore e insieme, attraverso un lungo sguardo, come se le
proiettasse avanti sulle ali di grandi desideri.
Mille volte, in seguito, l’ho vista interpretare la sua vita con la stessa attitudine.
Di Sergio Astori
Ripenso al giorno in cui ho incontrato Patrizia Pastore. Era il 9 aprile 1992. La Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), ad un solo anno dal Congresso straordinario di Brescia, dove si intendeva preparare la sfida fucina al Duemila, si era di nuovo riunita in Congresso a Salerno.
“Distanza e prossimità. Verso l’altro tra differenze e nuovi soggetti” era il titolo dell’assise dove erano convenuti giovani universitari da tutt’Italia. Nel Salone degli stemmi del Palazzo arcivescovile, le parole introduttive al 51mo Congresso della Fuci furono scandite da Patrizia Pastore e Sandro Campanini. Nei tre giorni e mezzo di riflessione ascoltammo voci autorevoli parlare di Europa come società aperta, di cittadinanza diffusa e tutela dei diritti in Occidente, di evangelizzazione e di ministeri nella comunità dei credenti, di nuovi mezzi per comunicare la cultura, di interdipendenza imprevista tra gli stati e di nuovi nazionalismi, di tensioni pronte ad esplodere intorno al Mar Mediterraneo.
Chi conosce i fucini non si stupirà, a chi non li conosce basti sapere che in quelle ore restammo in ascolto di docenti e testimoni di valore assoluto: Virgilio Melchiorre della Cattolica e Paolo Segatti della Statale di Milano, il cofondatore di Taizé Max Thurian, Tamar Pitch e Roberto Gatti dell’Università di Perugia. E ancora, studiosi di filosofia del linguaggio, di filosofia del rinascimento, di filosofia bantù in dialogo tra di loro. Infine, l’indimenticabile scrittore Pedrag Matvejevic in tavola rotonda con esperti di economia del benessere.
Al principio dei lavori congressuali intervennero Patrizia Pastore e Sandro Campanini, presidenti femminile e maschile della Fuci, una Federazione di gruppi ben radicata sul territorio nazionale e in rete con analoghi movimenti di studenti cristiani nel mondo. Subito mi accorsi con ammirazione che i due scandivano un vasto elenco di questioni cruciali, gli argomenti congressuali sfidanti che i fucini chiamano “tesi”. Attorno ad essi, dopo averli studiati, le fucine e i fucini convocano un congresso solitamente biennale per confrontarsi con le voci degli esperti. Negli appunti dell’epoca trovo nota degli argomenti sfiorati da Patrizia e Sandro: l’accoglienza delle differenze tra nord e sud del mondo, il processo di unificazione e i trasferimenti di sovranità in Europa, la riscoperta della sinodalità nella Chiesa, l’indifferenza sociale serpeggiante, la crisi della rappresentanza partitica, il ricambio degli apparati e i nuovi canali di partecipazione politica, l’innovazione nella didattica e nella ricerca.
Col senno di poi, si potrebbe dire che era stata azzeccata punto per punto l’agenda delle urgenze che giorno dopo giorno sarebbero diventate rilevanti nei trent’anni successivi. Merito di Patrizia e Sandro, anche con la generosa amicizia di Mons. Mario Russotto che divenne l’Assistente Spirituale Nazionale della Fuci, è stato quello di evitare un’elencazione delle sfide e dei problemi fine a se stessa. Negli anni successivi alle giornate a Salerno, ho osservato che la prospettiva di farsi prossimo agli altri è stata vissuta prima che predicata da Patrizia e Sandro, passando sempre dalle parole ai fatti. Negli atenei in cui la Fuci era presente, provammo a dare corpo all’autonomia universitaria sancita tre anni prima, nel 1989. Promuovemmo la qualificazione della didattica, la valutazione della ricerca, la valorizzazione della partecipazione studentesca, la strutturazione dei rapporti degli atenei con i territori. Erano gli anni Novanta, dirà qualcuno, ci si poteva permettere grandi slanci. Io penso che insieme a Patrizia, Sandro e moltissimi altri abbiamo avuto modo di declinare carità intellettuale e capacità profetica. In quale altro modo si spiegherebbero le intuizioni di quasi trent’anni fa, che spingevano ad affermare che gli studenti fuorisede fossero da considerare universitari a pieno titolo e che i cicli di laurea breve sarebbero stati un bene a patto che non si fossero trasformati in surrogati di percorsi formativi alti?
Era il 9 aprile 1992. Quel giorno ho conosciuto Patrizia Pastore. Aveva cura di ciò di cui parlava come se stesse appoggiando le idee sul cuore e insieme, attraverso un lungo sguardo, come se le proiettasse avanti sulle ali di grandi desideri.
Mille volte, in seguito, l’ho vista interpretare la sua vita con la stessa attitudine.