Di Cecilia Carmassi
Nelle faticose giornate che ci accompagnano verso l’elezione del/della Presidente della Repubblica le persone si sentono sempre più estranee alla rappresentazione e ai messaggi, spesso ridotte a spettatrici o ancora peggio a tifoserie come nei peggiori derby o nei più moderni talent show, ma quasi tutte, anche le più motivate, avvertono il costante allontanamento della politica dalle esigenze e dalla vita dei cittadini e delle cittadine e prevale una inquietante rassegnazione in merito.
Senza la pretesa di una elaborazione filosofica e culturale più ampia, che spero seguirà da parte di altre persone, trovo in questa situazione la conferma ad un pensiero che ho maturato nella esperienza “sul campo”: e se fosse proprio sbagliato il paradigma?
Provo a spiegarmi, scusandomi per le semplificazioni necessarie alla sintesi e forse utili a stimolare un dibattito.
La politica dei partiti (nelle varie forme in cui oggi si presentano) è sostanzialmente improntata e intrisa in ogni aspetto da quella che sinteticamente definirei la “cultura della guerra”.
Tattica e strategia, vincenti e perdenti, al cuore del sistema politico sembra essere scomparso proprio il cuore, in una gara di cinismo e di necessario “pelo sullo stomaco” che ha emarginato qualsiasi relazione e capacità empatica.
Immagino che questa sia solo una delle dimensioni della sua personalità, ma è quella di cui sono felice di aver fatto esperienza. È successo così che la competizione sembra essere diventata il fine e tutta la comunicazione è concentrata su ciò che fa segnare il punto o prevalere sull’avversario, talvolta persino sull’alleato in una perenne gara ad annientare l’interlocutore.
Ma siamo veramente sicuri che non ci sia alternativa a questo lessico?
Io credo che sia arrivato il tempo per una rivoluzione gentile che sostituisca alla cultura della guerra la cultura della cura, alla logica della competizione la logica della cooperazione, al “non fare prigionieri” il fare rete.
Se vogliamo che la politica torni ad essere l’azione di costruzione di un mondo dove tutti i cittadini possano vivere una vita buona, dove poter fare esperienza del piacere di vivere con gli altri nel mondo, non può che basarsi sul rispetto per l’altro, sulla responsabilità per le condizioni del contesto in cui viviamo e per le condizioni specifiche che impediscono ad alcuni di avere una vita almeno dignitosa, non può che partire dalla costruzione di relazioni che si lasciano interpellare e sono capaci di accogliere e farsi carico dei problemi e delle esigenze delle altre persone.
Per questo parlo di cultura della cura, cura per le persone, per l’ambiente, per le nostre comunità, l’esatto opposto dell’individualismo e della cultura dello scarto che considera fisiologico e persino funzionale al sistema il sacrificio di alcuni, una sorta di selezione naturale determinata dalle condizioni di partenza (luogo, tempo e contesto socio-economico o familiare di nascita) o dalle scelte operate.
La cultura della cura è capace di tempi lunghi, oggi che la politica sembra vivere alla giornata e quasi mai si mostra capace di uno sguardo che vada oltre la fine di una legislatura o la prossima scadenza elettorale, la cultura della cura è il contrario dell’egocentrismo e della ricerca spasmodica di visibilità e di like, perché invece di mettere al centro l’io, mette al centro l’altro.
Ho pensato più volte che la politica come cultura della cura sia la vera differenza in politica di cui si può far carico una maggiore presenza delle donne: oggi molte donne fanno fatica a riconoscersi nei “giochi di guerra” che caratterizzano le dinamiche politiche, altre si adeguano pensando che solo se si impara il modello maschile ci si possa affermare o anche solo sopravvivere in politica e che un’altra politica non sia possibile.
Io credo invece che questa attitudine o consuetudini con le dinamiche e il linguaggio della guerra sia oggi diventato devastante perché forse non più mitigato, come un tempo, da una diffusa cultura contadina (che è intrisa per natura di cultura della cura) e perché oggi più che allora si registra una dimensione della cura relegata alle politiche considerate di mera spesa pubblica (sanità, istruzione e soprattutto sociale) e che solo timidamente si riaffaccia nella dimensione della salvaguardia e cura dell’ambiente, così come il fatto che il lavoro di cura non sia mai stato pienamente considerato lavoro vero, da retribuire bene. Tutti questi fattori ci consegnano un Paese molto preso dall’oggi e poco dal futuro, in cui il senso di comunità è sempre meno forte e prevalgono contrapposizioni e divisioni.
Riflessione pessimista? Al contrario! Penso che il pessimismo sia rassegnarci a questa situazione e credo che la centralità della politica della cura e della cura come pratica politica sia la via di uscita da una situazione che sta desertificando gli spazi di partecipazione (partitica e civica), aumentando la distanza ed il senso di estraneità da parte dei cittadini e delle cittadine nei confronti di coloro che dovrebbero rappresentarli, amministrarli e governarli.
È una riflessione che ha basi autorevoli anche lontane nel tempo (a dimostrazione che il problema non riguarda solo l’oggi) ed oggi un’ampia elaborazione filosofica e politica che tuttavia deve saper superare gli spazi delle donne e diventare oggetto di un dibattito e di un confronto più ampio.
Solo parlandone insieme diventerà patrimonio di tutti e di tutte, capace di produrre esperienze, sperimentazioni e trasformazioni graduali.
Ps. Termino di scrivere queste brevi riflessioni durante l’interminabile tormentone mediatico sull’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, nel giorno in cui la nostra amica Patrizia avrebbe compiuto gli anni, ricordando le lunghe chiacchierate sulla politica e la sua preziosa appassionata incapacità di rassegnarsi ad una politica sempre più caratterizzata dal crescente cinismo e incapacità di farsi carico delle fragilità che ci circondano e il cui superamento i nostri Padri e Madri costituenti vollero mettere al centro dei compiti della Repubblica (art 3 della Costituzione).