Di Maria Bottiglieri
Chi ha conosciuto Patrizia nell’età della Fuci, ne ricorda bene l’autorevolezza gentile e l’elevato spessore
umano.
Una personalità forte che spiccava sensibilmente nel contesto e nei gruppi di cui era parte, a partire da
quello di Presidenza.
Una fortezza, quella del suo animo, che era tale proprio perché non prevaricava le personalità altrui ma,
anzi, le faceva emergere e crescere in modo armonioso e comunitario.
Un carisma che ha conservato e speso nei diversi contesti associativi in cui ha operato e tra le diverse
generazioni di fucini e fucine con cui ha sempre costantemente interloquito.
Ecco perché non sorprende, dopo anni, la difficoltà di ritrovarla in scritti, articoli o elaborazioni
scientifiche a cui i componenti di Presidenza nazionale, come peraltro tutte le fucine e tutti i fucini, erano
usi in quegli anni (e non solo). E non sorprende che i suoi pochi contributi su Ricerca fossero a due o più
voci. Ancora meno sorprende che uno tra i pochi suoi scritti firmati da lei sola e pubblicati su Ricerca
avesse un titolo paradgmatico, e ancora una volta di taglio corale: “Tante note su un unico pentagramma”.
Erano le sue conclusioni al Congresso straordinario di Brescia del 1991, in cui raccoglieva le indicazioni
per ripensare e far crescere i gruppi Fuci e i fucini degli anni Novanta.
Patrizia non è stata dunque una presidente di carta, ma di carne. Non era una persona tesa a far crescere se
stessa (cosa peraltro naturale negli anni della maturazione universitaria), ma era interessata ad accogliere
e far crescere gli altri, i gruppi e le persone affidati alle sue cure. Patrizia era una costruttrice di comunità.
Di cui era sovente l’anima, il motore, il pensiero. E chi ha questo carisma non ha bisogno di raccontarsi
perché racconta, non ha bisogno di dirsi perché dice, non ha bisogno di ascoltarsi perché sa ascoltare, non
ha bisogno di (de)scrivere, perché vive.
Immagino che questa sia solo una delle dimensioni della sua personalità, ma è quella di cui sono felice di
aver fatto esperienza.
I costruttori di comunità sono persone rare, ma non sono un unicum nello spazio e nel tempo: chiunque
abbia avuto la fortuna di inciampare nella sua vita in uno di loro è sempre in grado di saperli riconoscere.
Ovunque essi si palesino, nei contesti più ordinari o in quelli più inattesi.
Anche a me è capitato e capita di incontrarne: non tanti in verità, ma i pochi intercettati sono davvero
persone speciali.
Tra questi, ve ne sono alcuni che sono speciali perché spendono il loro carisma e giocano il loro ruolo non
solo nella comunità di immediato riferimento, ma riescono ad andare oltre.
Mi riferisco, in particolare, ai concittadini e alle concittadine italiane con background migratorio che
scelgono di impegnarsi nella cooperazione allo sviluppo con i Paesi di provenienza.
Si tratta per lo più di persone migrate in Italia per varie ragioni: in fuga da una guerra o da dittature, da
carestie e dalle povertà più estreme, da disastri ambientali di natura antropica o naturale o dagli effetti dei
cambiamenti climatici; in molti altri casi, al pari dei tante e tanti giovani italiani che espatriano, lasciano
ordinarie crisi economiche e occupazionali e sono semplicemente alla ricerca di una nuova realtà in cui
trovare migliori occasioni di vita.
I migranti che arrivano nel nostro Paese, non provengono generalmente dagli strati più poveri del paese
d’origine (che sovente non hanno nemmeno mezzi per migrazioni interne), quanto piuttosto dalle classi
medie, anche se impoverite o a rischio di impoverimento. Come molti studi evidenziano (si rinvia in
particolare ai tanti, sia di natura scientifica che divulgativa, di Maurizio Ambrosini) chi migra è
normalmente più qualificato di chi restano; i migranti devono infatti disporre di buona salute, efficienza
fisica, capacità di lavoro e devono poter godere di buona reputazione personale, essere riconosciuti cioè
come i migliori della loro comunità di appartenenza; comunità che su di loro ha scommesso e talora
investito, anche finanziando i costi elevati del viaggio, nell’auspicio che le migliori occasioni di vita
perseguite nel Paese di destinazione siano poi condivise e messe a disposizione anche di chi è restato a
casa.
Molto spesso, quindi, anche coloro che nel nostro Paese arrivano soli non sono davvero soli, perché sono
portatori dei sogni e delle speranze della famiglia e della comunità di appartenenza.
Gli immigrati, pertanto, che nel migliore dei casi sono percepiti come poveri cristi da accogliere e verso
cui essere generosi e caritatevoli, costituiscono in realtà un capitale umano di eccellenza che è di rilievo
per lo stesso sviluppo del nostro Paese.
Se ci si ferma solo al dato economico, emerge subito che il lavoro migrante contribuisce per circa il 9% al
PIL nazionale, ovvero 134,4 miliardi di euro (per un approfondimento consiglio la lettura dei report della
Fondazione Loene Moressa o i rapporti annuali prodotti dalla
Caritas e dai diversi istituti di ricerca che si occupano di migrazione). Al tempo stesso, le rimesse dei
migranti (ovvero i trasferimenti di fondi verso le famiglie e comunità di origine) che a livello mondiale
costituiscono tre volte tanto i fondi destinati all’aiuto allo sviluppo, raggiungono, nel nostro Paese circa 5
miliardi di euro: quasi il doppio dell’aiuto allo sviluppo, che non raggiunge i 3 miliardi (alcuni dati in
sintesi sono visionabili qui). Questi dati dicono che in attesa di investimenti più
significativi degli Stati a favore dei c.d. Paesi in via di sviluppo, che siano tali da permettere, come dicono
alcuni slogan, di “aiutare i poveri del mondo a casa loro” sono al momento gli immigrati che aiutano da
soli le comunità da cui provengono.
Malauguratamente non tutte le politiche pubbliche sembrano saper valorizzare pienamente questa
dimensione e questo valore aggiunto della migrazione.
Tutte tranne una, ovvero la politica italiana di cooperazione internazionale per il co-sviluppo. Per co-
sviluppo si intende una strategia basata sulla valorizzazione del capitale umano, sociale e finanziario
rappresentato dalle comunità migranti a favore dello sviluppo del loro paese d’origine.
Le politiche di co-sviluppo sono state formalizzate per la prima volta in Italia con la nuova legge sulla
cooperazione internazionale (L 125/2014) che riconosce le comunità della diaspora come uno degli attori
della cooperazione allo sviluppo sostenibile; attore che va dunque ad affiancarsi agli altri attori della
cooperazione internazionale: Enti territoriali, ONG, enti non profit, università, camere di commercio,
equo e solidale, imprese.
Tale riconoscimento legislativo è l’esito della sperimentazione di specifici processi e progetti di
cosviluppo attivati negli anni precedenti da diversi attori della cooperazione italiana, processi attivati in
virtù della peculiare condizione dei cittadini italiani con background migratorio: questi infatti sono
dialetticamente posti all’interno della polarità rappresentata fra il contesto di origine e quello di
accoglienza. Si tratta di una dualità complessa, caratterizzata, come evidenziano alcuni studi,
contemporaneamente da una doppia assenza in termini di pieno accesso ai diritti di riconoscimento e
partecipazione e da una doppia presenza, per quanto riguarda il duplice radicamento territoriale e
l’inserimento economico e sociale nella società di destinazione accanto, al mantenimento di intensi
legami con la madrepatria (per approfondimenti su queste dinamiche si consigliano i tanti studi elaborati
dal Cespi. É questa capacità di essere nello stesso tempo “qui e altrove” ad essere
stata valorizzata in singoli progetti, processi e ora anche politiche. Grazie alla Legge 125/2014 è nato un
processo di empowerment delle comunità di immigrati italiani denominato “Summit delle diaspore”: un
processo che ha consentito alle diverse comunità italiane di fare rete e di formarsi alla gestione diretta di
azioni di cooperazione al cosviluppo. Da questo percorso nazionale sono nati e stanno nascendo diversi
percorsi locali (sono state costituite ad esempio associazioni regionali in Puglia come in Piemonte) e
risultano sempre più numerosi i singoli progetti in cui tali attori spendono in modo diretto il loro
partenariato (per la descrizione di alcuni progetti promossi dalla Città di Torino, si consiglia questa
lettura: La cooperazione decentrata o territoriale. Il ruolo delle autorità locali nelle politiche europee di
cooperazione allo sviluppo sostenibile e di governance del fenomeno migratorio).
Il processo di autonomia delle diaspore per la cooperazione al co-sviluppo è lento ma continuato e non ha
subito arresti neanche in contesti politici sfavorevoli.
Gli attori coinvolti sono diversi, cittadini italiani con backgrpund migratorio, persone residenti
stabilmente in Italia ma non ancora dotate di cittadinanza, seconde generazioni nate e cresciute nel nostro
Paese ma con legami comunitari rilevanti con il Paese di origine delle loro famiglie.
Se dovessi individuare un trait d’union tra le diverse tipologie di approcci al cosviluppo, sicuramente, il
primo elemento che viene in evidenza è il carisma personale e la forte leasership comunitaria di ciascuno
dei protagonisti e delle protagoniste di questi percorsi.
Penso a Mary, piemontese di origine africana, diventata italiana grazie all’adozione di chi l’aveva
precedentemente adottata a distanza: pur vivendo qui la sua vita, non ha dimenticato la terra di
provenienza e infatti – insieme a suo marito (un ex-fucino!), la sua famiglia e agli amici che ne
sostengono i progetti – sostiene una scuola e un dispensario medico a Buoye, un piccolo villaggio del
Kenya (per conoscere meglio la storia di Mary leggi ,
“Mani tese fino all’Africa”; per conoscere meglio il progetto
Orfani del Lago Vittoria leggi qui). L’impegno di
Mary per le comunità di bambini e i malati di Bouye è una cosa speciale, ma il bene che ricevono coloro
che qui sono coinvolti in questo percorso di amicizia e solidarietà è davvero incommensurabile.
E penso anche a Cleophas, burkinabè, arrivato in Italia con un percorso difficile, fatto anche di raccolte di
arance e di pomodori, e poi ideatore e presidente dell’Ottobre africano,
dell’Italian-African Business e portavoce del Summit nazionale delle diaspore : grazie a lui – che ha avuto la capacità, in un momento politicamente molto
difficile per l’Italia, di interloquire con i rappresentanti del Ministero affari esteri e cooperazione
internazionale – e grazie al gruppo di animatori del Summit che è arrivato in porto il percorso di
empowerment e di networking promosso dalla rete delle diaspore italiane per il cosviluppo (per conoscere
meglio la storia di Cleophas, cfr il n 1/2020 di Coscienza da p. 33). Anche Cleo non ha dimenticato le sue origini e ha
avviato un progetto, “Un centro per Arnaud”, per tutelare chi, a Loumbila (a 15 km da Ouagadougou), è
affetto da autismo. Ma ogni aiuto che è stato e sarà
dato per far crescere questo importante progetto di cittadinanza non è neanche lontanamente paragonabile
al contributo prezioso che ha dato e sta dando Cleophas per costruire l’Italia multiculturale che è e che
verrà.
Le storie di Mary e Cleophas, pur diverse, sono analoghe non solo per il carisma di “community-makers”
che li accomuna, ma anche per l’approccio. Entrambi costruiscono comunità non da soli, ma con la forza
delle comunità cui appartengono: le rispettive famiglie, gli amici, i colleghi, i diversi “stakeholders”.
Comunità, dunque, come fine e come mezzo, come meta e come via.
Ho raccontato queste due storie perché, in diversi momenti e modi, si sono intrecciate con la storia del
Meic di Torino, di alcuni delle sue socie e mia.
Mary è una di noi. Alcune socie del nostro gruppo le sono amiche da tempo, sostengono a distanza (ma
non troppa... visto che una socia è stata con Mary in Kenya) alcuni “orfani del lago Vittoria” e spesso
hanno coorganizzare con lei le diverse iniziative di foundraising (come le mitiche cene africane). Qualche
anno fa, questo sommatoria di amicizie individuali è divenuta parte del patrimonio comune del Meic, che
ha voluto organizzare uno spettacolo per raccogliere i fondi destinati al nascente ospedale di Buoye.
Ho incontrato Cleophas per lavoro, grazie a un cooperante comune amico, e grazie a lui ho percorso un
pezzo della strada del Summit delle diaspore. Poi, nella convinzione che il co-sviluppo sia uno dei tanti
nomi della pace, ho proposto di invitarlo tra i relatori del convegno “La pace è ogni passo” organizzato a
Torino dal Meic nel 2019. Anche in questo caso, un incontro personale è diventato patrimonio comune
del nostro Movimento.
Ho narrato del modo in cui questi due amici hanno contribuito e contribuiscono a narrare l’Africa, ad
essere africani in Italia e italiani in Kenya o in Burkina Faso, il modo cioè in cui riescono a costruire ponti
tra la loro terra d’origine e quella d’elezione.
Ma potrei raccontare molte altre storie. Come quelle di Awa, Ab, Adel, Liuba... e delle tante e i tanti
(diversamente) italiani di origine senegalese, marocchina, tunisina, etiope, eritrea, impegnati a diverso
titolo e con diversi ruoli (sociali e anche politici) sul territorio italiano, ma con lo sguardo e il cuore
capaci di attraversare confini.
Penso a loro e ai tanti costruttori e costruttrici di comunità che sono in mezzo a noi: persone che creano
ponti grazie alla loro autorevolezza gentile, al carisma comunitario, alla capacità di far crescere le persone
loro affidate e di guidare i processi di co-sviluppo. Qui e “altrove”.