CONGRESSO NAZIONALE DELLA FUCI - BARI

Di Mariarosaria Petti

21 aprile 2012




Buon pomeriggio, grazie davvero di cuore per questo invito.


C’è una speciale combinazione di eventi e circostanze che mi rendono particolarmente felice. Partecipare ad un congresso della Fuci è sempre un po’ come tornare a casa e che cosa c’è di più bello e carico di significato che tornare a casa propria? Farlo nell’incontro che conclude l’anno celebrativo del 125esimo anniversario della Federazione è motivo di ulteriore gioia. Intervenire, poi, per presentare la figura di Patrizia Pastore è davvero una grazia speciale.


Raccontare Patrizia significa parlare dello stile fucino, di quel modo di essere e di stare al mondo che ha caratterizzato generazioni e generazioni di fucini. Non si può ricordare Patrizia senza far riferimento alla Fuci e non si può parlare della Fuci senza ricordare le persone che l’hanno resa grande e bella. Tra queste vi è senza dubbio la nostra Patrizia, che come ha ben detto mons. Russotto: «La Fuci l’aveva scolpita nel cuore». Non è una coincidenza – credo – che tutto questo avvenga a Bari, proprio nella città dove Patrizia ha studiato, aderendo al gruppo Fuci locale e partecipando all’organizzazione del Congresso nazionale insieme alla presidenza di allora. Il suo talento fu notato subito e dopo quell’evento le chiesero la disponibilità per ricoprire il ruolo di presidente nazionale della Fuci.


Chi era Patrizia Pastore? Nasce a Foggia da genitori campani, un’identità geografica che sentirà sempre molto forte. Patrizia studia Giurisprudenza qui a Bari e proprio negli anni universitari incontra la Fuci, stabilendo un’adesione ideale e valoriale che ha caratterizzato tutta la sua vita. È stata presidente nazionale dal 1989 al 1992. Racconta bene quegli anni il suo collega di presidenza, Sandro Campanini: «Anni intensissimi di attività̀, incontri, convegni, congressi, riflessioni, studi, elaborazioni... Anni di speranze e progetti, di amicizie profonde con colleghi e colleghe della presidenza a Roma e anche del centro nazionale di AC e del MEIC, con ex fucini e fucine che ci avevano preceduto, con tanti fucini e fucine in ogni parte d’Italia (e persino d’Europa), rafforzate dai numerosi appuntamenti nazionali (indimenticabili le settimane di Camaldoli) e dagli incontri con i gruppi nelle diverse diocesi... Amicizie alle quali se ne sono via via aggiunte altre anche lungo le generazioni successive, con i più̀ giovani... fino ad oggi...». Furono loro, Sandro e Patrizia, ad inaugurare una tradizione che ancora oggi la Federazione mantiene viva, quella di leggere a due voci la relazione introduttiva ai Congressi Nazionali. Un’idea nata per valorizzare i carismi maschile e femminile, cifra distintiva della Federazione. Patrizia, come dice mons. Russotto, assistente ecclesiastico nazionale della Fuci in quegli anni, «sarà ricordata come una delle grandi donne della Fuci, perché insieme a Sandro ha inaugurato una stagione nuova, uno stile di parità tra uomini e donne».


Patrizia ha trovato nella Fuci la sua casa e la Fuci ha trovato in Patrizia una madre. Un incontro felice – oserei direi – perfetto. L’attitudine alla ricerca, la fede vissuta nei gruppi Fuci come nelle prime comunità di cristiani, l’ascolto, l’accoglienza dell’altro e l’amicizia, i legami intergenerazionali sono alcune delle perle che rendono preziosa l’esperienza in Fuci e sono diventate anche le qualità di una ragazza e poi di una donna straordinaria.


Ho ritrovato con piacere le parole di Aldo Moro sulla Fuci, pronunciate in occasione del sessantesimo anniversario della Federazione. Mi sembra utile perché in quelle parole senza tempo risiede il motivo dell’attaccamento di Patrizia e di tanti fucini alla Fuci. «Esprimo come posso e come so un sentimento unitario, comune, che resta nel passare delle tante generazioni che ormai si sono susseguite nella vita della Fuci, generazioni solidali fra loro, nel loro spirito, come forse a nessun’altra organizzazione, […] ci sentiamo così vicini ed eguali nella nostra diversità a coloro che ci hanno preceduto, ci sentiamo vicini e capaci, direi di immediata comprensione verso coloro che oggi lavorano come noi abbiamo lavorato, stretti essi pure in un vincolo strettissimo a tutto questo passato vitale, ricco, pieno di spiritualità. C’è una unità fondamentale nella nostra vita, una unità di tono ideale che la Fuci ha determinato in noi, qualche cosa di veramente caratterizzante, di veramente decisivo, lo possiamo dire che abbiamo ricevuto dalla Fuci quello che la Fuci ci ha dato: è qualche cosa che ha inciso profondamente nella nostra vita, è una qualificazione essenziale, insopprimibile, irrinunciabile, una cosa estremamente importante per ciascuno di noi. Credo di non riferirmi soltanto ad una esperienza individuale ma appunto ad un sentimento comune: nessun’altra esperienza, nessun altro modo di essere nella nostra vita è stato così profondo, e così radicato in noi, come questo, permanente e determinante. Questa importanza, questa permanente validità della Fuci, mi pare che ce la faccia celebrare continuamente, ce la faccia ricordare continuamente come la parte più bella e più vera della nostra vita, ce la fa ricordare e celebrare al di fuori di ogni adunanza, di ogni esterno incentivo, quotidianamente».


Parole senza tempo, che accorciano le distanze tra i fucini di ieri e di oggi. In questo sentire comune di appartenenza alla Fuci è cresciuta Patrizia, sancendo un legame rimasto saldo per una vita intera.


Patrizia continuerà a coltivare il suo amore per la Fuci anche una volta terminato il mandato, anche trasferendosi in America con suo marito Antonio, subito dopo le nozze. È lì che darà alla luce la sua primogenita Vanessa e che inizierà a costruire quella casa sulla roccia, una famiglia speciale, solida, unita che ha poi messo radici a Roma e si è allargata con l’arrivo di altri tre figli: Noemi, Romolo e Aurora.


Pensando a quello che avrei potuto dire per raccontarvi Patrizia ho pensato che fosse riduttivo presentare esclusivamente la sua biografia. Mi sono sentita come il prof. di D’Avenia in Cose che nessuno sa mentre aggiusta il suo curriculum al pc. «Fissava le frasi che si susseguivano sotto il suo nome e cognome in grassetto: data di nascita, di laurea, di abilitazione, domicilio e residenza, stato civile […] – scrive D’Avenia e prosegue più avanti – Al posto di quel domicilio e di quella residenza avrebbe dovuto e voluto elencare i paesaggi che aveva visto e toccato con i ricordi annessi: città, paesi, colline, montagne, laghi, fiumi, mari. Quelli erano i suoi indirizzi. […] La via in cui abitava l’avrebbe sostituita con tutte le strade che aveva calcato, anche quelle senza nome ma che ricordava bene. Aveva stilato l’elenco dei propri risultati, o meglio dei risultati che altri avevano certificato, ma quel che pensava lui del mondo, degli altri, della felicità e dell’amore, dove poteva inserirlo? […] Quello che aveva davanti era il suo numero di scarpe e non la terra calpestata con le suole». Ecco, allora per non dirvi soltanto il numero di scarpe di Patrizia, ma la terra calpestata con le sue suole, proverò a elencare tre tratti del suo essere che dovremmo tutti accogliere come un’eredità preziosa, un seme da piantare nel giardino della propria anima.


    Patrizia, icona di madre

Patrizia è innanzitutto icona dell’essere madre. Utilizzo un verbo al presente, perché continua ad esserlo. È madre chi sa fare spazio nella propria vita. Chi sa riconoscere e togliere il superfluo, chi sa godere dell’essenziale. È madre chi «ama dell’amore di pura perdita – come ha detto di Patrizia mons. Russotto – cioè di quell’amore che tutta dà e niente attende».

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Nel 2015 io e Patrizia ci siamo ritrovate dopo diversi anni. L’avevo conosciuta anni prima a Roma, ero appena diciottenne. Mi trovavo alla fermata della metro Ottaviano e dovevo raggiungere la Sala Clementina per l’udienza particolare che il Santo Padre Benedetto XVI aveva accordato alla Federazione. Ero spaesata, era la prima volta che andavo a Roma da sola. Mi sono ritrovata davanti una donna bellissima: “Sei una fucina?” mi chiese (tra noi fucini ci riconosciamo subito, probabilmente). Mi prese per mano e mi fece strada. Da quel momento continua a farlo, seppure in modi diversi. Nel 2015, Patrizia era appena stata eletta presidente nazionale dell’Acisjf, l’associazione cattolica internazionale a servizio della giovane, e mi chiese una mano per rivitalizzare la comunicazione. Sono stati anni di vera grazia. Gomito a gomito, riunioni interminabili – di persona e via Skype – viaggi in treno. Un tempo fecondo in cui non smettevo di imparare. Mentre discutevamo di un Comunicato stampa, Patrizia sapeva dare indicazione a uno dei quattro figli per la cena, organizzarsi con suo marito Antonio, ritornando alle scartoffie con acume e intelligenza. Ammiravo la sua statura di moglie e mamma e mi incantava ascoltare gli aneddoti della sua famiglia. I suoi occhi brillavano al solo pronunciare il nome del suo sposo, tanto erano grandi amore e stima per Antonio. Di Vanessa, Noemi, Romolo e Aurora raccontava l’infanzia e l’adolescenza. Mi stupiva notare il rapporto esclusivo che da madre aveva costruito con ognuno di loro, diversi per temperamento e personalità, seppure educati e accomunati dai medesimi valori.


Che cosa può dirci l’esempio di Patrizia oggi, in un Paese in cui non si fanno più figli, in cui l’unico vero welfare sembrano essere i nonni? Patrizia, per scelta a Roma, quindi lontana dalla famiglia di origine, ha cresciuto quattro ragazzi insieme ad Antonio, continuando a lavorare. Non sono certo mancate amarezze e dispiaceri lungo il percorso professionale, ma mi piace ricordare la grande tenacia di una donna che a 52 anni aveva vinto un concorso pubblico e aveva da poco iniziato a lavorare all’Istituto Superiore di Sanità, al Centro Nazionale Sangue.


Patrizia era madre perché aveva cura di tutto ciò che attraversava la sua vita. Sapeva farsi carico senza che gli altri avvertissero la fatica. Lo faceva per istinto, non certo forzatamente: accogliere era il suo modo naturale di stare al mondo. Patrizia non ha avuto paura di interpretare la complessità femminile, perché una donna sa essere perno, senza per questo doversi avvitare su sé stessa, combinando in modo sempre nuovo ed originale la scelta di essere moglie, mamma, lavoratrice, volontaria. Patrizia era una mamma felice, perché era una donna compiuta.


    Patrizia, maestra di amicizia

«Patrizia era piena di vita e la vita in lei diventava luce», padre Mario conosceva così bene Patrizia ed è impossibile non attingere alla sua penna per raccontarla. Quando Patrizia è scomparsa, scrissi di getto: «Ho provato ad essere la tua ombra, ma tu non permettevi a nessuno di rimanere nell’oscurità, tutti sapevi illuminare con la tua luce». Il suo sorriso era luce, lo erano la sua voce così come i suoi occhi. Tutto in lei brillava di purezza.


Patrizia sapeva avere sempre uno sguardo non giudicante sulle questioni, sui progetti, sulle persone. Aveva quella rara capacità di credere negli altri, di sapere ascoltare senza preconcetti e pregiudizi, consentendole di tessere trame di amicizia con qualsiasi generazione. Non c’è nulla di paragonabile allo sguardo di fiducia che si posa su di te di chi crede nelle tue possibilità. Lo dico perché purtroppo quando si è giovani si ha sempre quella sensazione di non essere presi sul serio, di non essere ascoltati nel profondo. Quella spiacevole dinamica di chi si pone di fronte a noi in silenzio ma con stampato sul volto quel “Ai miei tempi era meglio…”. Patrizia custodiva un candore e una purezza che la ponevano in dialogo autentico con chiunque. Trasudava garbo e gentilezza, sempre condito dall’ironia (e autoironia) che facevano di lei un’amica e sorella maggiore speciale.


Non credo di esagerare nel dire che Patrizia ha tenuto per quasi un trentennio unite generazioni di ex fucini. Se Patrizia è stata capace di ammagliare la rete dei fucini è perché è stata maestra di amicizia, quella vera e autentica. Nel blog che abbiamo inaugurato con un sito web che ricorda Patrizia Pastore – insieme alla famiglia, ad un gruppo di amici e di associazioni care alla presidente – c’è uno straordinario contributo di Francesca Simeoni, già presidente nazionale della Fuci, proprio sull’amicizia. Scrive Francesca: «L'amicizia, quando accetta il disagio di allargarsi oltre la sfera del simile e dell'utile, diventa capacità di essere liberi insieme agli altri, diventa garanzia di coesistenza: io accetto e desidero che tu sia diverso, non temo la tua differenza perché siamo liberi-amici. Patrizia andava a conoscere chi stava a due generazioni di distanza da lei per giovinezza, incontrava realtà associative diverse da quelle della sua provenienza e da quelle con cui aveva familiarità, aveva una parola amicale per le persone più diverse da lei, un sorriso e un riscontro sincero anche nei disaccordi vivaci con chi le era vicino. E questo, difficile non immaginarlo, era solo la sistole, rispetto alla diastole delle sue amicizie più intime, delle quali aveva cura come una sorella».


    Patrizia, esempio di rettitudine

Patrizia era una testimone credibile del Vangelo, perché ad ogni bivio della sua vita non ha avuto tentennamenti. Sceglieva il bene, anche a costo di rischiare o di rimetterci. Fermezza e mitezza in lei convivevano con equilibrio, Patrizia era retta di cuore. Ha saputo interpretare con trasparenza e senso di giustizia ogni incarico associativo. Anche nell’ultimo tratto del cammino su questa terra. In Acisjf il suo arrivo è stata una nuova primavera dopo un inverno durato troppo a lungo.


Patrizia era riuscita a cogliere lo spirito della realtà ultracentenaria dell’Acisjf proiettandola nel futuro, individuando e mostrando le nuove sfide da accogliere. Aveva visitato i Comitati di tutta Italia, viaggiando senza timore di affaticarsi. Ha conosciuto i presidenti, le volontarie, gli educatori. Sapeva porsi in ascolto di tutti, trovando risposte di senso per ciascuno. Era onorata di rappresentare una federazione che trasuda umanità, il suo impegno era rivolto a dare sempre maggiore risonanza alle attività di volontariato messe in campo dall’Acisjf.


Patrizia non ha vissuto abbastanza da vedere concluso il suo mandato, ma se avesse potuto fare un bilancio dei suoi tre anni alla guida dell’associazione avrebbe constatato con stupore e meraviglia il grande lavoro per valorizzare il ruolo del volontariato al femminile – delle donne per le donne – e dello sforzo enorme per rimuovere ogni forma di arroccamento e autoreferenzialità, in un’associazione che si proiettava a passare il testimone alla nuove generazioni per non vedere la sua storia spegnersi.


Presidente nazionale della Fuci, l’impegno nella Fondazione Fuci, il percorso a Cittadinanzattiva, fino all’impegno in Acisjf. Patrizia ha portato sempre in queste realtà l’amore per la conoscenza e lo spirito di carità operosa. Il suo entusiasmo era contagioso, sapeva coinvolgere e valorizzare chiunque le stesse intorno.


    Patrizia, la “santa della porta accanto” (cit. mons. Pelvi, arcivescovo di Foggia-Bovino)

Mi avvio alla conclusione, sapendo già di non aver saputo dire abbastanza di Patrizia. Non credo ci siano parole sufficienti per raccontarla. Con un amico comune, Sergio Astori (anche lui fucino!) ci siamo ritrovati a ragionare sul senso del fare memoria. Che cosa significa fare memoria? E se i nostri sforzi si riducessero ad una mera rievocazione, ripercorrendo e riproponendo le tappe del passato? Se fare memoria significa, invece, condividere un ricordo che suscita emozione e ci permette di rivivere lo stesso stupore della prima volta, allora non posso non aprire lo scrigno di frammenti di ricordi più intimi che mi legano a Patrizia.


Quando ci siamo incontrate nel 2015 a ritrovarsi sono state le nostre fragilità. Patrizia appena eletta presidente nazionale dell’Acisjf usciva da un periodo difficile, aveva infatti terminato un’esperienza lavorativa ed era alla ricerca di un nuovo lavoro. Io lavoravo da precaria in più redazioni locali, sottopagata e con l’umore a terra. Cercavo un segnale a cui aggrapparmi per dire a me stessa e agli altri che sì, io nella mia vita volevo scrivere. Ci siamo strette l’una all’altra, forse le nostre ferite di allora si sono intese tra loro meglio di mille parole. E siamo rinate, con fatica e sudore.


La sera del 2 settembre, quando ho appreso la notizia della sua tragica scomparsa in un incidente stradale, ho sentito strapparmi dal petto un pezzo di cuore. È stata una delle notti più difficili della mia vita. Dopo 13 giorni, le mie nozze, nel giorno del mio compleanno. Di quel matrimonio, avevamo condiviso tutto: l’abito (il mio e il suo), le letture, le preghiere dei fedeli che avrebbe dovuto leggere a due voci con Antonio. Ci eravamo sentite il giorno prima dell’incidente. La malattia cronica che ho scoperto di avere proprio tre anni fa cominciava a manifestarsi e Patrizia si preoccupava di sapere come stessi. Il suo ultimo messaggio è stato: «Nella lunga lista delle persone che ti vogliono bene, ci sono anche io». Era così Patrizia, presente e discreta, affettuosa e mai invadente. Mi sono sentita in colpa perché è stata la sua scomparsa a farmi capire quanto fosse fondamentale nella mia vita.


Mi fa sorridere parlare dei santi con i bambini. Ci avete mai provato? Per i piccoli diventano una sorta di supereroi del passato, immersi in storie leggendarie che trasudano mistero. Non che parlare di santità con i grandi vada meglio, eh! Nel mio percorso fucino mi sono appassionata alla vita dei santi, una compagnia speciale che mi ha accompagnato negli anni più belli della mia vita. Però c’era sempre quel tassello inafferrabile che mi lasciava domande aperte: la questione dei miracoli, ad esempio. Il significato dell’intercessione, poi. Ecco, la perdita di Patrizia mi ha regalato una santa della porta accanto. Quando dopo pochi mesi dal matrimonio, ho avuto la diagnosi scritta nero su bianco della mia malattia, il medico chiarì a me e a mio marito che non sarebbe stato impossibile avere figli, ma sicuramente difficile. Da quel momento, tutto era preghiera nella mia vita. Ho imparato a rivolgermi a Patrizia come si fa con i santi, le chiedevo di spiegare a Dio quanto davvero desiderassimo quel figlio. «Perché tu mi conosci e ora puoi scrutare nel mio cuore, devi dirlo a Dio che è così» le dicevo.


Dopo pochi mesi, ho scoperto di essere incinta. Una gravidanza seguita passo dopo passo. C’era il rischio di un parto precoce (tra i pericoli legati alla mia patologia) ed era necessario arrivare alla 37esima settimana almeno. Il mio bambino, il mio splendido Vincenzo, è nato alla 37esima settimana. È nato esattamente il 29 gennaio, lo stesso giorno in cui è nata Patrizia. Quella carezza da mamma a mamma, il vero tocco di un angelo, mi hanno confermato l’idea che la vita di Patrizia è stata un tesoro inestimabile e che immensa è la sua cura dal Cielo.